Quando inviai a Gianni Letta, direttore de IL TEMPO,
la notizia che Gheddafi abitò a Santa Marinella e frequentava la Scuola di
Guerra a Civitavecchia e Bracciano, ero un giovane neolaureato, «un manzoniano
che tirava quattro paghe per il lesso».
Mai avrei immaginato che un giorno mi sarei ritrovato a Betlemme, per la messa
di Natale, assieme ad Arafat e sua moglie Suha Daoud Tawil.
Anni
dopo come Segretario di una Confederazione Sportiva del CONI convocai a Roma, il 1° Convegno dei Paesi del Mediterraneo. Era
accanto a me Primo Nebiolo, quando riuscii a far sedere al tavolo anche i delegati
palestinesi ed israeliani col proposito
di organizzare a Betlemme, nell’anno 2000, il Torneo Mondiale della Pace.
Ne è passato di tempo dal mio Natale a Betlemme, e
dall’incontro coi due miei amici: Nadir el Turk palestinese, e Victor Yussim
israeliano all’Assemblea delle nazioni del bacino Mediterraneo e Medio Oriente.
Non ricordo tutti i particolari, perché
lottavo contro il tempo. La cosa però che mi rimase impressa fu la difficoltà a
contattare il Comitato Olimpico di Palestina: i numeri di telefono che mi
avevano dato non corrispondevano, le linee erano sempre occupate, non si
riusciva a mandare i fax. Solo dopo innumerevoli tentativi, solo pochi giorni prima
dell’Assemblea mi arrivò finalmente la conferma anche i delegati della
Palestina avrebbero partecipato.
Fu in, tale occasione che conobbi Nadir,
un ufficiale palestinese delegato dal suo Comitato Olimpico, accompagnato da
Fouad, un giovanotto tarchiato con un faccione simpatico che avrebbe dovuto
essere la sua scorta ma che Nadir aveva bonariamente soprannominato “EAT AND
SLEEP” . Fu una amicizia a prima vista: non avevo mai avuto amici arabi e
israeliani, loro furono i primi. Quando Nadir, al momento di ripartire, mi
invitò in Palestina a visitare Betlemme, pensai che si trattasse della solita
frase di rito.
Non fu così.
Alcune settimane dopo ricevetti prima
una telefonata e poi un invito ufficiale a recarmi al Cairo, per poi attraverso
il deserto del Sinai, andare alla striscia di Gaza e da lì a Betlemme e Gerusalemme.
Avevo poco tempo per decidere se accettare. Proprio in quel periodo in Egitto,
a Luxor, c’era stato un sanguinoso attentato. Molti mi sconsigliavano di
andare, ma io prenotai i biglietti per me e un giocatore della mia squadra. Era
tutto complicato, lui non aveva il passaporto ed il visto, io avevo avuto ennesimo
inconveniente che m’indusse a cancellare la prenotazione e a rinunciare al
viaggio.
Nadir però insisteva e quando l'ultimo giorno
utile per partire Carmine mi telefonò dicendo che gli era arrivato il
passaporto, rimpiansi di aver cancellato le prenotazioni. I voli per l’Egitto
erano ormai pieni, ma la nostra agenzia fece il “miracolo” e in un’ora scovò
due posti Roma-Cairo, via Atene. Il
pomeriggio dello stesso giorno eravamo a bordo dell’aereo che ci portava ad
Atene. Era quasi mezzanotte quando mettemmo piedi fuori dall’aeroporto del
Cairo su un piazzale enorme.
Era la prima volta che andavo in
Africa, il cielo era chiaro e stellato, faceva caldo anche se era dicembre e
davanti a noi c'era Città del Cairo, una megalopoli di oltre dieci milioni di
abitanti. Un amico di Nadir ci
condusse in città. La nostra camera era al settimo piano dell'Hotel Shepard e
quando guardammo fuori dalle nostre camere, rimanemmo abbagliati dal mare di
luci che si apriva davanti a noi.
C'era un grande lago sotto le nostre
finestre, nel quale si rispecchiavano le luci degli hotel ed i giardini di una
splendida Moschea. L’indomani mattina scoprimmo che non si trattava di un lago,
bensì del fiume Nilo, il gigante le cui acque scorrevano placidamente sotto le
nostre finestre, mentre le ore della città erano scandite dalle preghiere che
si innalzavano dagli altoparlanti delle Moschee, Allah Akhbar: Dio è grande.
Nadir si trovava a Luxor e noi in quei
giorni d’attesa approfittammo per visitare la città: le piramidi di Gizah, il
museo egizio, il mausoleo di Nasser, il palazzo della Lega Araba, le moschee. Quando
Nadir arrivò al Cairo rimanemmo lì ancora qualche giorno in attesa dell’auto
dell’Ambasciata palestinese che ci doveva portare alla striscia di Gaza. La
sera eravamo ospiti dello zio di Nadir, Vice Ambasciatore, con molte altre
persone, su un grande barcone-ristorante sul Nilo. Sapendo che io ero cristiano
facevano spesso sedere accanto a me un vescovo Copto, fu lui che una sera
quando gli dissi che venivo da Santa Marinella, che aveva preso questo nome da
Santa Marina, mi spiegò che anche loro veneravano Santa Marina, che tuttavia
era la santa Patrona – o meglio la santa Matrona - dei cristiani maroniti del
Libano.
Poi arrivò la notizia che la macchina dell’Ambasciata
era pronta e il giorno seguente saremmo partiti per Gaza. L’indomani mattina Nadir
ci venne a prendere con una grossa Mercedes, un po’ ammaccata e stracarica di
bagagli, con la quale avremmo attraversato il deserto del Sinai. A bordo della Mercedes
mi sedetti accanto ad un “simpatico
vecchietto”, ben vestito con giacca e cravatta. Quando gli chiesi se
parlasse inglese, sorridendo mi rispose “a
little blit” (solo un po’ ), in
realtà parlava un ottimo inglese. Nadir si sedette accanto all'autista, un
omone in canottiera grosso e tarchiato, con una pistola nel cinturone,
taciturno per tutto il viaggio. Il “vecchietto”
era un generale dell'Esercito palestinese e l’autista la nostra scorta.
Era dicembre ma faceva caldo, il viaggio sembrava non
finire mai. Ci vollero diverse ore prima di uscire dal Cairo e arrivare al
Canale di Suez: una sottile linea retta
azzurra, che si perdeva all'infinito, lungo la quale passavano navi che
sembravano montagne. Ogni tanto s’intravvedeva qualche sagoma di carro armato
arrugginito, residuo della guerra del Kippur. Attraversato il canale di Suez ci
fermammo a mangiare in una piccola oasi dove c’erano officine, vecchie auto
malandate, in mezzo a pecore, cammelli e venditori di ogni sorta di mercanzie.
Entrammo in una taverna, faceva fresco, c’era molta gente. Ci portarono una
minestrina bianca di semi di cumino, spiedini d’agnello, insalatina verde e
pane, simile al carasau della Sardegna.
Era quasi sera quando arrivammo al
valico di Rafah, dove c’erano i posti di blocco: dapprima la polizia, poi l’esercito
egiziano, le truppe dell'Onu asserragìiate nei loro fortini, poi l’esercito
israeliano, infine la polizia palestinese.
Ai posti di blocco dovevamo
scendere, portare a mano i nostri bagagli, andare a piedi – guardati a vista -
per un lungo tragitto su quella che sembrava la "terra di nessuno", mostrare il passaporto farlo timbrare e poi
salire su una nuova auto per il prossimo posto di blocco, fino ad arrivare al
varco per la Striscia di Gaza dove da lontano riconobbi Fouad, in piedi ad
aspettarci. La sera ci fecero una grande festa a Gaza City.
Nel locale dove cenavamo, la gente sapendo
che eravamo italiani ci venivano a salutare e a farsi fotografare con noi
circondati da bambini che conoscevano tutte le squadre di calcio e i giocatori
italiani.
L’indomani mattina ci fu una riunione
presso il Comitato Olimpico palestinese dove il Segretario Generale ci diede il
benvenuto. Fu in questa riunione che prese forma il progetto di organizzare un
Torneo Sportivo Internazionale a Betlemme in occasione del Giubileo dell’Anno
2000, con la sponsorizzazione di una grande Banca Araba.
Lasciai Gaza con un po’ di dispiacere e
anche timore perché per arrivare a Betlemme avremmo dovuto superare diversi
posti di blocco e ci saremmo dovuti separare da Nadir, il quale non avendo i permessi di transito ci aveva
affidato a suo cugino Jamal e a Tony due persone straordinarie che non
dimenticherò mai. Partimmo alla
volta di Betlemme. Dopo un lungo ed estenuante viaggio che sembrava non finire
mai, giungemmo all'Hotel Palestina, e dall'espressione del viso dei nostri
nuovi accompagnatori Jamal e Tony, capimmo che qualche cosa che non andava: infatti
non c’era posto. Fummo però più fortunati di Giuseppe e Maria. Bastarono un paio
di telefonate di Nadir da Gaza e come per miracolo ci fu assegnata una confortevolissima camera in quello che
era uno dei più bei alberghi di Betlemme. Tony e Jamal ci tenevano compagnia erano
allegri, scherzavano.
Jamal ci disse che faceva parte dell’Organizzione
Non Violenta della Palestina, abitava a Gerusalemme, era elettricista e quella
mattina si era alzato alle cinque per finire in tempo il suo lavoro e venirci a
prendere al posto di blocco tra la striscia di Gaza ed Israele. Uscimmo
dall’hotel e ci inerpicammo su una scalinata fino a raggiungere la piazza dove
si affaccia la Chiesa della Natività, gremita di gente, dove su un palco
vedemmo il Presidente Yasser Arafat che dava il benvenuto ai pellegrini. Ero preoccupato perché mi ero reso conto che
per assistere alla messa di mezzanotte bisognava avere una prenotazione ed un
lasciapassare, in realtà non avevo capito che il nostro “ lasciapassare “ era
Jamal e Tony entrambi di religione mussulmana ci guidarono fino alla chiesa,
girando intorno alla folla che faceva la fila e ci spinsero tra le braccia di
tre giovanissimi poliziotti palestinesi – tifosi della Juventus - armati fino
ai denti, e ci affidarono a loro che ci presero in consegna e facendosi strada
tra le fila dei turisti, ci condussero attraverso uno stretto passaggio nella
Chiesa della Natività.
Accendemmo due piccole candele prima di
entrare nella Grotta di Gesù, dove trovammo diverse persone in ginocchiate che
pregavano in silenzio.
Nella Grotta regnava una pace che
invitava a rimanere lì, davanti a noi la mangiatoia e una stella d’argento al
centro. Usciti dalla grotta ci portarono verso un cancello di ferro che
divedeva la chiesa e ci fecero passare nell’altra Chiesa parte dove si celebrava
la messa di Natale, una fila avanti a noi c’era Arafat e sua moglie Suha Daoud Tawil circondati da guardie del
corpo. Suha parlava bene l’italiano perché sua mamma e sua sorella erano
vissute a Roma per diversi anni e Suha che studiava a Parigi veniva spessa a
Roma a trovarle.
Finita la messa e la processione tornammo
all’Hotel Palestina che erano passate le tre.
Entrati in camera ci accorgemmo che
Tony si era messo a dormire in terra, lasciandoci a noi i due letti. L’indomani
‘ascendemmo’ a Gerusalemme dove ci aspettava Jamal che ci condusse sulla
spianata delle Moschee e dove grazie a loro, entrammo senza nessun controllo nella
Moschea di Omar, detta della Roccia perché custodisce la pietra dove Maometto
era salito in cielo, accolti dall’Imam che ci fece da guida e mentre ci
mostrava la pietra, dovetti trattenermi dal ridere, nel vedere quel Pio uomo lanciarsi
contro un gruppo di anziane pellegrine mussulmane che sedute su delle panche
avevano osato togliersi le scarpe mettendole in terra sui tappeti e lui che predendo
le scarpe gliele scagliava addosso.
L’Imam prima di congedarsi da noi
ci regalò un libretto di preghiere scritto in arabo con una traduzione in
francese, dove un Osama Bin … dell’epoca (Osama Bin Mùnqidb , 1095- 1188), descriveva una storia vera di incontro scontro tra
cristiani e mussulmani, accaduta nella vicina Moschea di al-Aqsa ai tempi delle
crociate, quando i Cavalieri Templari suoi amici gli salvarono la vita durante
una aggressione da parte di un Franco. Gli arabi chiamavano FRANCHI tutti i pellegrini
cristiani che arrivavano dall’Europa a Gerusalemme. Il racconto inizia con l’anatema
di questo Osama: “I FRANCHI, CHE DIO LI CONFONDA! “
"Un tratto di rozzezza dei franchi ‑ Dio li confonda!
‑ è questo:
quando visitai Gerusalemme
io solevo entrare nella Moschea di al-Aqsa, al cui fianco c'è un piccolo
oratorio, di cui i Franchi avevan fatto una chiesa.
Quando dunque entravo
nella moschea di al‑Aqsa, dove erano insediati i miei amici Templari, essi mi
mettevano a disposizione quel piccolo oratorio per compiervi le mie preghiere.
Un giorno entrai, dissi la formula Allàh Akbar (Dio è Grande) e ristetti per
iniziare la preghiera, quando un franco mi si precipitò addosso, mi afferrò e
volse il viso verso oriente, dicendo: "Così si prega", subito
intervennero alcuni Cavalieri Templari, che lo presero e lo allontanarono da
me, mentre io tornavo a compiere la preghiera, ma colui, colto in un momento
che non badavano, mi si ributtò addosso rivolgendomi la faccia ad oriente, ripetendo:
"così si prega" e di nuovo i Cavalieri Templari intervennero, lo
allontanarono, e si scusarono con me, dicendo: "E’ un forestiero, arrivato
in questi giorni dal paese dei Franchi, e non ha mai visto nessuno pregare col
viso rivolto a oriente."
Dopo Gerusalemme per tornare a Gaza
passammo per Ramallah dove c'era Nadir ad aspettarci, per riportarci al Cairo,
di nuovo attraverso il deserto del Sinai.
Resta il ricordo quando all’Assemblea
della Confederazione del Mediterraneo dovevano partecipare per la prima volta anche
i delegati di Palestina ed Israele: ed ero io l’autore di quest’incontro
diplomatico. La sera a cena i delegati delle altre nazioni facendo finta di
nulla erano in attesa di vedere cosa sarebbe successo all’arrivo della
delegazione di Israele, quella di Palestina era già lì.
Nel momento in cui i due delegati si
trovarono di fronte ci fu un attimo di gelo, i due si guardarono, rimasero
fermi e poi … si abbracciarono e strinsero la mano, in quel momento stavo
lavorando alacremente per organizzare a Betlemme, nell’anno 2000, il Torneo
Mondiale della Pace, ignaro che invece si stava approssimando l’ARMAGEDDON …
Nessun commento:
Posta un commento